domingo, 11 de novembro de 2018

LE RICORDANZE / AS RECORDAÇÕES, de Giacomo Leopardi








Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea

Tornare ancor per uso a contemplarvi

Sul paterno giardino scintillanti,

E ragionar con voi dalle finestre

Di questo albergo ove abitai fanciullo,

E delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole

Creommi nel pensier l'aspetto vostro

E delle luci a voi compagne! allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,

Delle sere io solea passar gran parte

Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

E in su l'aiuole, susurrando al vento

I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto

Sonavan voci alterne, e le tranquille

Opre de' servi. E che pensieri immensi,

Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,

Che di qua scopro, e che varcare un giorno

Io mi pensava, arcani mondi, arcana

Felicità fingendo al viver mio!

Ignaro del mio fato, e quante volte

Questa mia vita dolorosa e nuda

Volentier con la morte avrei cangiato.



Nè mi diceva il cor che l'età verde

Sarei dannato a consumare in questo

Natio borgo selvaggio, intra una gente

Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

Argomento di riso e di trastullo,

Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,

Per invidia non già, che non mi tiene

Maggior di se, ma perchè tale estima

Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori

A persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza

Tra lo stuol de' malevoli divengo:

Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola

Il caro tempo giovanil; più caro

Che la fama e l'allor, più che la pura

Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

Senza un diletto, inutilmente, in questo

Soggiorno disumano, intra gli affanni,

O dell'arida vita unico fiore.



Viene il vento recando il suon dell'ora

Dalla torre del borgo. Era conforto

Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,

Quando fanciullo, nella buia stanza,

Per assidui terrori io vigilava,

Sospirando il mattin. Qui non è cosa

Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro

Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per se; ma con dolor sottentra

Il pensier del presente, un van desio

Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

Quella loggia colà, volta agli estremi

Raggi del dì; queste dipinte mura,

Quei figurati armenti, e il Sol che nasce

Su romita campagna, agli ozi miei

Porser mille diletti allor che al fianco

M'era, parlando, il mio possente errore

Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,

Al chiaror delle nevi, intorno a queste

Ampie finestre sibilando il vento,

Rimbombaro i sollazzi e le festose

Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno

Mistero delle cose a noi si mostra

Pien di dolcezza; indelibata, intera

Il garzoncel, come inesperto amante,

La sua vita ingannevole vagheggia,

E celeste beltà fingendo ammira.



O speranze, speranze; ameni inganni

Della mia prima età! sempre, parlando,

Ritorno a voi; che per andar di tempo,

Per variar d'affetti e di pensieri,

Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,

Son la gloria e l'onor; diletti e beni

Mero desio; non ha la vita un frutto,

Inutile miseria. E sebben vóti

Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro

Il mio stato mortal, poco mi toglie

La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

A voi ripenso, o mie speranze antiche,

Ed a quel caro immaginar mio primo;

Indi riguardo il viver mio sì vile

E sì dolente, e che la morte è quello

Che di cotanta speme oggi m'avanza;

Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto

Consolarmi non so del mio destino.

E quando pur questa invocata morte

Sarammi allato, e sarà giunto il fine

Della sventura mia; quando la terra

Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo

Fuggirà l'avvenir; di voi per certo

Risovverrammi; e quell'imago ancora

Sospirar mi farà, farammi acerbo

L'esser vissuto indarno, e la dolcezza

Del dì fatal tempererà d'affanno.



E già nel primo giovanil tumulto

Di contenti, d'angosce e di desio,

Morte chiamai più volte, e lungamente

Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell'acque

La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco

Malor, condotto della vita in forse,

Piansi la bella giovanezza, e il fiore

De' miei poveri dì, che sì per tempo

Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso

Sul conscio letto, dolorosamente

Alla fioca lucerna poetando,

Lamentai co' silenzi e con la notte

Il fuggitivo spirto, ed a me stesso

In sul languir cantai funereo canto.



Chi rimembrar vi può senza sospiri,

O primo entrar di giovinezza, o giorni

Vezzosi, inenarrabili, allor quando

Al rapito mortal primieramente

Sorridon le donzelle; a gara intorno

Ogni cosa sorride; invidia tace,

Non desta ancora ovver benigna; e quasi

(Inusitata maraviglia!) il mondo

La destra soccorrevole gli porge,

Scusa gli errori suoi, festeggia il novo

Suo venir nella vita, ed inchinando

Mostra che per signor l'accolga e chiami?

Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo

Son dileguati. E qual mortale ignaro

Di sventura esser può, se a lui già scorsa

Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,

Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?



O Nerina! e di te forse non odo

Questi luoghi parlar? caduta forse

Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,

Che qui sola di te la ricordanza

Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede

Questa Terra natal: quella finestra,

Ond'eri usata favellarmi, ed onde

Mesto riluce delle stelle il raggio,

E' deserta. Ove sei, che più non odo

La tua voce sonar, siccome un giorno,

Quando soleva ogni lontano accento

Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto

Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi

Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri

Il passar per la terra oggi è sortito,

E l'abitar questi odorati colli.

Ma rapida passasti; e come un sogno

Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte

La gioia ti splendea, splendea negli occhi

Quel confidente immaginar, quel lume

Di gioventù, quando spegneali il fato,

E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna

L'antico amor. Se a feste anco talvolta,

Se a radunanze io movo, infra me stesso

Dico: o Nerina, a radunanze, a feste

Tu non ti acconci più, tu più non movi.

Se torna maggio, e ramoscelli e suoni

Van gli amanti recando alle fanciulle,

Dico: Nerina mia, per te non torna

Primavera giammai, non torna amore.

Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,

Dico: Nerina or più non gode; i campi,

L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno

Sospiro mio: passasti: e fia compagna

D'ogni mio vago immaginar, di tutti

I miei teneri sensi, i tristi e cari

Moti del cor, la rimembranza acerba.



Tradução é de Wagner Mourão Brasil:



Vagas estrelas da Ursa, eu não pensava

Retornar como antes a contemplar-vos

Sobre o paterno jardim cintilantes

E conversar convosco da janela

Da casa onde morei quando menino,

E vi chegar ao fim minha alegria.

Quantas imagens então, quantas ilusões

Criou minha mente à vossa visão

E o resplendor de vossas companheiras!

Então, sentado em verde relva, mudo,

Das noites eu passava grande parte

Contemplando o céu, e escutando o canto

Da rã que vem de longe na campanha!

E o vagalume errava junto às sebes

E pela leira, sussurrando ao vento

As aleias fragrantes, e os ciprestes

Lá no bosque; e sob o teto paterno

Alternavam-se as vozes e o tranquilo

Labor dos criados. Que pensar vasto,

Que doces sonhos me inspirou a vista

Do distante mar, dos montes azuis,

Que daqui enxergo, e que em transpor um dia

Eu sonhava, arcanos montes, arcana

Ventura inalcançada em meu viver!

Alheio ao meu fado, por quantas vezes

Esta existência sofrida e vazia

Com prazer pela morte eu trocaria.



Nem me dizia o coração que os anos

Da minha juventude eu passaria

Neste burgo selvagem, entre gente

Grosseira, vil, para os quais formação

E saber são razão de diversão

e riso; gente que me evita e odeia

Por inveja ainda não, pois não me tem

Por melhor que eles, mas por presumir

Que assim eu me julgue, embora aos de fora

A ninguém jamais mostrei que assim fosse.

Aqui passo os anos, sozinho, oculto,

Sem vida, sem amor; e amargo torno-me,

À força de estar entre esta gentalha.

Da compaixão me dispo e das virtudes,

Pelos que me são próximos rendo-me

Ao desprezo pelos homens; no entanto

Foge a amada juventude; mais cara

Que o renome e os lauréis, mais que a mais pura

Luz do dia, e o respirar: perco-te

Sem um deleite, inutilmente, nesta

Moradia inumana, em meio às mágoas,

Oh! da árida vida única flor.



Vem o vento trazendo o som das horas

Da torre da igreja. Era conforto

Aquele som, recordo, às minhas noites,

Quando criança, no aposento escuro,

Por assíduos terrores eu velava,

Anelando a aurora. Aqui não há coisa

Que eu ouça ou veja de que alguma imagem

Não surja, e um doce relembrar não aflore.

Doce por si; mas com a dor ocupa

O pensar do presente, vão desejo

Do passado que, triste, diz: eu fui.

Aquela varanda, defronte aos últimos

Raios do dia; este muro pintado,

A figurativa grei e o Sol que nasce

Sobre uma perdida campanha, ofertam

Mil prazeres ao meu ócio, e a meu lado

Estava, a falar, sempre, aonde eu fosse,

O meu grande erro. Nesta sala antiga,

À claridade da neve, junto a estas

Amplas janelas sibilando o vento,

Soaram as brincadeiras e a minha

Alegre voz enquanto o amargo, vil

Mistério das coisas a nós se mostra

Pleno de doçura; pura, completa,

O jovem, como virginal amante,

A sua vida ilusória contempla,

E o celeste encanto enganoso admira.



Oh! esperanças; deleitosos enganos

Da minha juventude! Ao falar,

sempre volto a vós; que ao passar do tempo,

À sorte dos afetos e pensares,

Olvidar-vos não vou. Fantasmas, creio,

São a glória e a honra; prazer e bens,

Mero anseio; não dá frutos a vida,

Miséria inútil. Embora vazios

Sejam os anos meus, pouco me tira

A sorte, bem percebo. Ai, mas sempre

Em vós repenso, oh esperança antiga,

E no primeiro e caro imaginar;

Agora vejo o meu viver indigno

E dolente, e que a morte é tudo aquilo

Que de toda a esperança hoje me resta;

Sinto fechar-me o coração, não sei

Como consolar-me do meu destino.

E quando por esta invocada morte

Estará ao meu lado, e próximo o fim

Da desventura minha; quando a terra

Será um vale estrangeiro, do meu olhar

Fugirá o devenir; de vós por certo

Lembrarei; e aquela imagem fará

Que eu ainda suspire, torne-me amargo

Por haver vivido em vão, e a doçura

Do dia fatal se tingirá de ânsia.



Já no primeiro juvenil tumulto

De contentamento, angústia e saudade,

Chamei amiúde a morte, e longamente

Sentei-me acolá próximo à nascente

Pensando em cessar dentro daquela água

A esperança e a dor. Depois, por um mal

súbito, levado a beira da morte,

Chorei pela perdida juventude,

E a flor dos meus pobres dias, que cedo

Desfolhava: e a horas mortas, sentei-me

Sobre o ciente leito, poetando

Tristemente à luz da fraca candeia,

Lamentei com o silêncio e a noite

A vida que escapava, e na agonia

Cantei sem ânimo um fúnebre canto.



Quem rememorar pode sem suspiros,

Oh! alvorecer da juventude, oh dias

Gloriosos, inenarráveis, quando

Ao fascínio mortal primeiramente

Sorriem as jovens; em torno ao jogo

Todos sorriem; a inveja se cala,

Não acorda ainda ou é afável; e quase

(inusitada maravilha!) o mundo

A mão direita estende a socorrê-lo,

Perdoa os erros seus, festeja a sua

Nova chegada à vida, e se inclinando

Mostra que por senhor o aceita e chama?

Fugazes dias! ao clarão de um raio

Desvanecem. E qual mortal ignaro

Da desgraça escapa, se já fluiu

A alegre estação, se o seu melhor tempo,

O tempo da juventude, ai, passou?



Oh, Nerina! Estes lugares talvez

Não mais me falem de ti? Meu pensar

Talvez já te esqueceu? Onde andarás,

Que aqui restou de ti só a lembrança,

Doçura minha? Não mais te vê a terra

Onde nasceste: aquela janela,

Onde costumavas falar-me, e de onde

Brilham tristes os raios das estrelas,

Está deserta. Onde estás, que não ouço

Tua voz soar, como ouvi um dia,

Quando me comovia cada sílaba

Que até mim de teus lábios me chegava?

Outro tempo. Foram-se os dias teus,

Doce amor. Tu te foste. A outros hoje

É dado passar pela terra, e aqueles

Montes fragrantes habitar. Mas rápida

Passaste; e como um sonho, a tua vida.

Dançavas; em teu semblante a alegria

Brilhava e nos teus olhos reluzia

Como luz de esperança aquela chama

Da juventude que o fado apagou,

E descansaste. Ai, Nerina! em mim vive

O antigo amor. Se por vezes vou a festas,

Ou se a reuniões, a mim mesmo digo:

Oh Nerina, para estas reuniões

E festas não mais te vestes ou vais.

Se maio volta, e flores e canções

Vão os amantes levando às donzelas,

Digo: oh Nerina, por ti não retorna

Jamais a primavera, o amor não volta.

Cada dia calmo; cada campina

Florida que admiro, um prazer que sinto,

Digo: Nerina a nada frui; os campos,

O ar tu não vês. Ai, tu te foste, eterno

Suspiro meu: morreste, companheira

De cada grato pensamento, todos

Os ternos, tristes, caros sentimentos

Do meu coração, a lembrança amarga.





(Ilustração: Arnold Böcklin (1827-1901) - Swiss Symbolist painter) 




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